Titolo originale: La luna e i falò
Autore: Cesare Pavese 1ª ed. originale: 1950
Data di pubblicazione: 2002 Genere: Romanzo
Editore: Edizione speciale per La Repubblica Collana: Novecento
Pagine:158
Cesare Pavese nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, e morì suicida a Torino nel 1950. Laureatosi in Lettere nel 1932, si dedicò per qualche tempo all’insegnamento in scuole private e serali. In stretto contatto con gli ambienti intellettuali di Torino, amico di Leone Ginzburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio e Giulio Einaudi, fu per un breve periodo direttore della rivista La Cultura, subentrando nel 1934 a Leone Ginzburg, arrestato dalla polizia fascista. Ma nel 1935 la rivista venne chiusa d’autorità, e Pavese fu condannato al confino a Brancaleone Calabro, dove rimase fino alla fine del 1936. Tornato a Torino, si dedicò soprattutto all’attività di traduttore di letteratura americana e di narratore, lavorando nel contempo come redattore della neonata casa editrice Einaudi. Dopo l’esordio con il volume di poesie Lavorare stanca (1936), pubblicò i romanzi Paesi tuoi (1941), Il carcere (1941), La spiaggia (1942), Il compagno (1947), La casa in collina (1948), La luna e i falò (1950), oltre ai racconti lunghi riuniti nel volume La bella estate (1949): Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, accanto a quello che fornisce il titolo. Di taglio più saggistico che narrativo sono Feria d’agosto (1946) e Dialoghi con Leucò (1947). Tra i volumi usciti postumi, da ricordare le poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951), gli scritti critici di Letteratura americana ed altri saggi (1951), i racconti di Notte di festa (1953), il romanzo giovanile Ciau Masino (1968), e soprattutto il diario Il mestiere di vivere (1952, edizione critica 1990), fondamentale per la poetica dell’autore.
Poesie, romanzi, saggi
1989 - Poesie giovanili
1936 - Lavorare stanca
1941 - Paesi tuoi
1941 - La spiaggia
1946 - Feria d'agosto
1947 - Racconti 1947 - La terra e la morte (9 poesie)
1947 - Dialoghi con Leucò
1947 - Il compagno
1949 - La casa in collina
1949 - Il diavolo sulle colline
1949 - Tra donne sole
1949 - Il carcere
1949 - La bella estate
1950 - La luna e i falò
Opere Postume
1930/50 - La letteratura americana e altri saggi
1951 - Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, (10 poesie)
1952 - Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950
1953 - Notte di festa (racconti)
1956 - Lettere 1924-1944
1959 - Fuoco grande (incompiuto)
1966 - Lettere 1945-1950
1968 - Ciau Masino
Pubblicato nell'aprile del 1950 e considerato dalla critica il libro piú bello di Pavese, La luna e i falò è il suo ultimo romanzo.
Il protagonista, Anguilla, all'indomani della Liberazione torna al suo paese delle Langhe dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell'amico Nuto, ripercorre i luoghi dell'infanzia e dell'adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. Storia semplice e lirica insieme, costruita come un continuo andirivieni tra il piano del passato e quello del presente, La luna e i falò recupera i temi civili della guerra partigiana, la cospirazione antifascista, la lotta di liberazione, e li lega a problematiche private, l'amicizia, la sensualità, la morte, in un intreccio drammatico che conferma la totale inappartenenza dell'individuo rispetto al mondo e il suo triste destino di solitudine.
Incipit:
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione. Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella - due stanze e una stalla - la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.
Libro consapevolmente finale, uscito nel 1950, pochi mesi prima che Cesare Pavese si togliesse la vita in un albergo di Torino, La luna e i falò era considerato dal suo autore una «modesta Divina Commedia»; e anche, comunque, il coronamento della sua carriera di scrittore: ««La luna e i falò - scriveva Pavese in una lettera - è il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo, forse sempre, non farò più altro». Capolavoro indiscusso di uno degli scrittori novecenteschi dapprima più giustamente amati e poi più ingiustamente trascurati, il romanzo narra, in una prospettiva che fonde mito antropologico e simbolo psichico, di un Ritorno: Anguilla, protagonista e io narrante, torna nelle sue Langhe nell’immediato dopoguerra dopo molti anni passati in America; e nel paese natio intraprende una sorta di pellegrinaggio alla ricerca delle proprie radici, avendo per accompagnatore e guida - il Virgilio della «modesta Divina Commedia» - l’amico d’infanzia Nuto, falegname e suonatore di clarino, ma soprattutto anima integra e pura.
Nel Piemonte post-bellico, Anguilla passa di orrore in orrore, di delusione in tragedia, constatando suo malgrado che le ragioni della storia sono state più forti della cultura locale, della civiltà contadina che la sostanzia, delle radici etniche cui ormai si può guardare solo con rimpianto. Fra le continue eppur sorvegliate tentazioni di trasfigurazione lirica della realtà, si affaccia così in tutta evidenza una delle più alte testimonianze di disagio intellettuale e di dolorosa eticità culturale che la letteratura del dopoguerra abbia prodotto: una testimonianza che inaugura senza appello il volo cieco del secondo Novecento.
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