Titolo originale: World War Z. Art oral History of the Zombie War
Titolo italiano: World War Z - La Guerra Mondiale degli Zombi
Autore: Max Brooks
1ª ed. originale: 2006
Data di pubblicazione:2007 Genere: Romanzo
Sottogenere: Horror Editore: Cooper
Collana: Cooper storie
Traduzione: Nello Giugliano
Pagine:307
Maximillian Brooks, nato a New York il 22 maggio 1972) è uno scrittore, sceneggiatore e attore statunitense.
È figlio di Mel Brooks e Anne Bancroft.
Dal 2001 al 2003 fu uno degli autori del programma televisivo Saturday Night Live, vincendo nel 2002 un Emmy Awards come miglior autore di testi.
Vive a New York City con la moglie Michelle Kholos Brooks e con il figlio Henry Michael.
2006 - Manuale per sopravvivere agli zombi
2006 - World War Z. La guerra mondiale degli zombi
2011 - Zombie Story e altri racconti
Comincia in uno sperduto paesino della Cina. E subito dilaga in tutto il mondo. La piaga, la peste ambulante, l'epidemia. La guerra degli zombi. Creature mostruose che contagiano e fagocitano il nostro pianeta, la nostra casa. I sopravvissuti sono pochi. Una storia irreale? Il semplice parto della fantasia di uno scrittore? Forse. Max Brooks, con l'artificio di una raccolta di interviste "sul campo", dà vita a un affresco in cui le tante e diverse voci ricreate e animate in questo libro parlano di guerra, sofferenza e solitudine, ma anche di speranza, coraggio e nobiltà.
Incipit:
Introduzione
La chiamano in molti modi: la Crisi, gli Anni bui, la Peste ambulante, ma anche con nomi più trendy, come guerra mondiale degli Zombi o prima guerra degli Zombi. A me personalmente non piace quest'ultima etichetta, perché presuppone un'inevitabile seconda guerra degli Zombi. Per me sarà sempre la guerra degli Zombi, e anche se molti possono contestare l'esattezza scientifica della parola "zombi", farebbero fatica a trovare un altro termine universalmente riconosciuto per le creature che hanno quasi provocato la nostra estinzione. Zombi resta una parola sconvolgente, ineguagliabile nella sua capacità di evocare così tante memorie o emozioni, e sono proprio queste memorie, e le emozioni, l'argomento di questo libro.
Questo documento sul maggiore conflitto nella storia dell'umanità deve la sua origine a uno scontro molto più piccolo e molto più personale, tra me e il presidente della Commissione per il dopoguerra delle Nazioni Unite. La prima versione del documento era a tutti gli effetti il faticoso frutto di un impegno appassionato. Il mio indennizzo di trasferta, il mio livello di accesso alla sicurezza, il gran numero di traduttori sia umani che elettronici che avevo a disposizione, nonché il mio piccolo ma quasi inestimabile "compagno" per la trascrizione vocale (il più grande dono che il dattilografo più lento del mondo possa desiderare), testimoniavano tutto il rispetto e il valore attribuiti al mio lavoro in questo progetto. Inutile dire, quindi, che per me fu uno shock scoprire che quasi metà di quel lavoro era stata cancellata dalla stesura finale del rapporto.
«Era tutto troppo intimo», mi disse il presidente durante una delle nostre tante "animate" discussioni. «Troppe opinioni, troppi sentimenti. Il rapporto non tratta di questo. Abbiamo bisogno solo di fatti e cifre, sgombri da qualsiasi sentimento». Naturalmente, quella donna aveva ragione.
Il rapporto ufficiale fu una raccolta di dati freddi e precisi, una obiettiva ricostruzione delle operazioni" che avrebbe permesso alle generazioni future di studiare gli eventi di quell'apocalittico decennio senza farsi influenzare dal "fattore umano". Ma non è il fattore umano a legarci così profondamente al nostro passato? Le generazioni future troveranno più interessanti le tavole cronologiche e le statistiche sulle perdite o i racconti personali di individui così simili a loro? Escludendo il fattore umano, non rischiamo quel tipo di distacco personale dalla storia che potrebbe portarci, dio ce ne scampi, a riviverla? E infine, non è forse il fattore umano l'unica vera differenza tra noi e quel nemico al quale facciamo riferimento parlando di "morti viventi"? Presentai queste argomentazioni, forse con meno professionalità di quanto avrei dovuto, al mio capo, che dopo la mia ultima esclamazione, «non possiamo far morire queste storie», mi rispose subito con: «Allora non farlo. Scrivi un libro. Hai ancora tutti i tuoi appunti e la libertà legale di usarli. Chi ti impedisce di tenere in vita queste storie nelle pagine del tuo (imprecazione eliminata) libro?».
Qualche critico avrà senza dubbio da ridire sull'idea di un libro di memorie così a ridosso della fine della guerra. Dopo tutto, sono passati solo dodici anni dalla dichiarazione del "Giorno della Vittoria in America" negli Stati Uniti continentali, e appena un decennio da quando l'ultima superpotenza mondiale celebrò la propria liberazione nel "Giorno della Vittoria in Cina", che molti considerano la fine ufficiale della guerra. Come possiamo avere, quindi, una vera prospettiva storica quando, con le parole di un collega dell'ONU: «La pace non ha ancora avuto tempo di farci dimenticare la guerra?». L'obiezione è fondata e necessita una risposta. Per questa generazione, quella di chi ha combattuto e sofferto per conquistare questo nostro decennio di pace, il tempo è tanto un nemico quanto un alleato. Certo, gli anni a venire permetteranno un giudizio con il senno di poi, frutto di una maggiore saggezza e di ricordi visti alla luce di un mondo maturato. Ma molte di queste memorie potrebbero non esistere più, intrappolate in corpi e spiriti troppo debilitati o malati per assistere al raccolto dei frutti della loro vittoria. Non è un gran segreto che l'aspettativa di vita mondiale sia appena un'ombra di ciò che era prima della guerra. Malnutrizione, inquinamento, la ricomparsa di malattie un tempo debellate: questa è la realtà attuale persino negli Stati Uniti, nonostante l'economia in ripresa e il sistema sanitario pubblico. Semplicemente non ci sono abbastanza risorse per provvedere a tutte le vittime fisiche e psicologiche della guerra. È a causa di questo nemico, il tempo, che ho rinunciato al lusso di un giudizio retrospettivo e ho pubblicato questi resoconti dei sopravvissuti. Forse, tra qualche decennio, qualcuno si assumerà il compito di raccogliere i ricordi di sopravvissuti più vecchi e più saggi. E magari tra questi ultimi ci sarò anch'io.
Anche se questo è innanzitutto un libro di memorie, contiene molti dei dettagli tecnologici, sociali ed economici elencati nel rapporto della commissione, per il ruolo che hanno avuto nelle storie delle voci presenti in queste pagine. Questo è il loro libro, non il mio; per questo ho cercato di rimanere una presenza quanto più invisibile. Le domande incluse nel testo sono lì solo per riprodurre quelle che avrebbero potuto porre i lettori. Ho cercato di astenermi da giudizi o commenti di ogni tipo, e se c'è un fattore umano che dovrebbe essere cancellato, che sia il mio.
La probabile imminente uscita nelle sale cinematografiche italiane di “World War Z” di Marc Forster, con Brad Pitt protagonista, dagli spezzoni che girano in rete si annuncia come un gustoso appuntamento per gli amanti del genere horror-fantascientifico. Non so se il film rispetterà le attese e manterrà anche solo in parte la qualità del libro da cui è stata tratta la sceneggiatura ma è certo che “World War Z. La guerra mondiale degli zombi” è un libro che sorprende. Perché non è un horror, né un libro di fantascienza militare ma un originale romanzo sul rapporto psicologico dell’essere umano con la guerra e le sue conseguenze; sulle politiche di guerra e sul cinismo e la crudeltà delle “logiche superiori”; sui comportamenti umani di sopravvivenza e sulla rottura dei vincoli di comunità e di solidarietà che la brutalità della guerra impone.
Il libro non è ne semplicemente horror e né semplicemente fantascienza ma qualcosa di più e di diverso dell’ennesimo scontro tra umani e zombi. Alle prime battute risulta subito intrigante il modo con il quale Brooks racconta questo insolito conflitto mondiale. La voce fuori campo, il narratore del romanzo, non è altro che un giornalista alle prese con un lungo reportage che indaga sui prodromi del contagio, sullo sviluppo della crisi militare e sociale provocata dal conflitto, sui passaggi decisivi della fine della guerra mondiale tra umanità e zombi e sulla difficile ricostruzione del dopoguerra. L’io narrante si limita a porre domande ai protagonisti intervistati o a lasciarli semplicemente raccontare. Sono infatti costoro gli esclusivi protagonisti del conflitto; le loro testimonianze su fatti specifici avvenuti nella profonda Cina, nel freddo delle foreste del Canada, tra i passi di montagna del Pakistan, nelle pianure degli Stati Uniti, nel freddo inverno russo o in qualche isola del Pacifico, ci fanno rivivere in successione l’orrore e la disperazione del contatto con gli zombi, le reazioni delle comunità e i comportamenti adottati per difendersi, le strategie dei governi, il cinismo dei politici e dei militari, le “ragioni” dei tanti profittatori della situazione, di quelli che c’hanno fatto i soldi sopra e così via. E la bestialità umana e la ragione di Stato, eguagliano e superano a volte la cieca inumanità antopofaga dell’orda zombi.
Dalle prime testimonianze scopriamo che a dare il via alla guerra è stato un contagio che ha provocato la contaminazione progressiva di milioni di persone trasformatesi in zombi. Come spesso avviene in casi come questo e che ricordano le notizie frammentarie di casi reali di contagio avvenuti in questi anni, tutto era prevedibile, curabile e arginabile ma le grandi agenzie investigative nazionali, le agenzie mondiali della sanità e i governi hanno ignorato o nascosto i primi casi, non dato credito a quanti avevano sin da subito trovato la cura e la soluzione possibile, lasciando in tal modo esplodere il fenomeno. Questa parte del libro, relativa al contagio, è forse quella con il ritmo più incalzante. Poi arrivano le reazioni dei governi: alcuni, come Israele che si blinda con una recinzione muraria per evitare il contagio, cercano di costruire zone franche anticontagio per i non contaminati a discapito di milioni di contaminati o condannati ad esserlo; altri, come gli Stati Uniti, credono fermamente nella potenza di fuoco che il livello tecnologico del proprio apparato militare può mettere in campo, salvo andare incontro ad un disastro drammatico per le truppe al fronte e per le popolazioni del nord america. Risposte disordinate e inefficaci che porteranno a soluzioni successive drastiche, cinicamente drammatiche per molte popolazioni, di sapore malthusiano protremmo dire come furono, ad esempio, alla vigilia della Grande Guerra del 1914-1918 le reazioni dei neodarwiniani di fronte alla supposta “benefica soluzione” di selezione positiva della popolazione mondiale che avrebbe dovuto avere quella tragica guerra mondiale. Le interviste ai militari e agli strateghi civili sono molto belle, interessanti e attuali.
Ma la guerra mondiale degli zombi, oltre a creare territori infestati dal contagio, consente la nascita anche di aree di resistenza e sopravvivenza a scapito dei vincoli di solidarietà e comunità. La brutalità dei rapporti tra persone è un altro aspetto che viene a poco a poco a galla dalle testimonianze dei sopravvissuti. Il ricorso al cannibalismo non tarderà a farsi vivo, così come l’ostilità verso gli stranieri, gli altri, quelli che non fanno parte della piccola patria messa in piedi per sopravvivere. I sistemi di vita sino a quel momento esistenti nelle varie società umane – dalla Cina al Sud Africa, dagli Stati Uniti alla Russia – verranno sconvolti dalla guerra e la ricostruzione raccontata nelle ultime interviste e racconti di protagonisti della guerra sarà certo un nuovo inizio per l’umanità rimasta, ma del tutto diverso da quello vissuto prima della guerra mondiale degli zombi.
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